Don Giosuè Valsecchi (1842-1871)

Nacque ad Acquate l’11 dicembre 1809, ultimo di sette figli avuti dai genitori GioMaria e Riva Paola, che poi si trasferirono, con la loro numerosa famiglia, a Castello.

Risulta che nel 1831 si trovava nel Seminario Arcivescovile di Milano dove “…attendeva allo studio delle scienze teologiche del secondo corso…”.

Fu eletto parroco di Acquate nel 1842, succedendo al fratello maggiore Don Francesco Valsecchi, già parroco dal 1828.

Sacerdote dal carattere fiero e risoluto, ma anche di grande bontà d’animo, tanto che, nell’adempimento del suo ministero pastorale, era capace di farsi in quattro per il bene degli altri.

Fu durante il suo ministero che l’Arciduca Massimiliano d’Austria donò alla Chiesa l’organo Morelli.

Rimase parroco di Acquate fino alla sua scomparsa, avvenuta il 24 gennaio 1871.

E’ ricordato come patriota antiaustriaco, ma anche antiliberale dopo il 1859, secondo quanto testimoniano alcune vicende riferite nella “Cronistoria di alcuni fatti accaduti in parrocchia tra il 1846 e il 1871” e di cui riportiamo di seguito uno stralcio che l’acquatese Cavalier Francesco Milani aveva pubblicato negli anni ’60 sul bollettino della parrocchia.

 

Ecco il suo racconto:

“DALLE MEMORIE DI UN VETERANO ACQUATESE – ANNO 1850”

L’Austria, dopo un breve periodo di blandizie e di riforme, aveva compreso troppo bene che nel Lombardo-Veneto il terreno ridiventava incandescente. E per dare una lezione che servisse a far rinsavire i Lombardi, emanava un decreto di confisca di tutte le armi, seguito a breve distanza con l’impiccagione dei detentori renitenti. Tra i primi a pagare vi furono tre sacerdoti esemplari: Don Enrico Tazzoli, Don Grioni e Don Brioni, impiccati a Belfiore il 7 dicembre 1852.

In quel clima di ardente patriottismo si svolse l’episodio che stiamo per narrare:

Il parroco Don Giosuè Valsecchi era uno dei più tenuti d’occhio tra i sacerdoti dei dintorni dalla gendarmeria di Lecco, per i suoi sentimenti patriottici.

Uomo energico e di carattere adamantino, sapeva però stare alla regola, usando una grande prudenza: non così quel rompicollo del suo nipote che, orfano in tenera età, era stato accolto dallo zio e avviato agli studi di architettura. Costui si era dato anima e corpo alla Carboneria, assumendosi il pericoloso compito di reclutare aderenti fra i suoi coetanei del territorio lecchese e, cosa ancor più grave, era in possesso di una carabina e di Cartelle del Prestito Mazziniano che servivano per l’acquisto di armi e munizioni al comitato di insurrezione.

In una notte di dicembre del 1856, Don Giosuè si riscalda al fuoco di un grosso ceppo dopo la cena, discorrendo familiarmente con un giovane di Acquate, intimo amico del nipote. Improvvisamente due, tre colpi di campanello, tirati rabbiosamente, fanno sobbalzare la domestica che aveva chiuso l’uscio dall’interno: poi, di fuori, la voce tonante del capitano della gendarmeria che grida: “aprire, aprire subito!”

Un attimo: il giovane amico che sta confabulando col parroco, intuendo la situazione, scatta come una molla; si infila su per le scale e scompare. Don Giosuè non ha ancora avuto il tempo di riprendersi dalla sorpresa che si trova davanti un’orda di croati con fucile e baionetta intestata capitanati dal Maggiore che intima: “fermi, fermi tutti!”.

I gendarmi incominciano la perlustrazione dalla cucina buttando tutto sottosopra, poi nello studio, rovesciando sul pavimento ogni cosa…

Lo scompiglio si rinnova nella camera da letto del prete, in quella della domestica ed infine in quella del nipote….

Il povero Don Giosuè si sente ormai perduto: “ Ci siamo, dice tra sé, qui sta il morto” e il suo pensiero va alla busta maledetta con il cifrario degli affiliati e alla carabina.

Ma poi le cose cambiano. I gendarmi guardano tutto passando al setaccio ogni cosa e ogni libro, ma non trovano nulla e Don Giosuè tira un sospiro di sollievo.

Una mano benedetta è arrivata in tempo a far sparire tutto, fucile e cartelle ed il suo pensiero corre riconoscente al giovane che, ai primi colpi, si era infilato su per le scale.

Il capitano, vista sparire la preda che riteneva ormai sua, perde le staffe e incomincia ad inveire contro il parroco: “Tu essere vecchio prete furfante!” urla furibondo.

“E voi – risponde con calma e incrociando le braccia don Giosuè – voi essere ufficiale senza onore perché insultare vecchio prete innocente”.

Gli sbirri ed il loro capo riprendono la via della città con le pive nel sacco per questa perquisizione andata a vuoto e che d’ora in poi sarà lo spasso dei lecchesi, mentre in canonica è tornata la calma, dopo la tempesta, dove due uomini si tengono abbracciati: “Come hai fatto, Pietro?” chiede Don Giosuè.

“Semplicissimo” risponde il giovane “intuendo il pericolo, in un salto son salito nella stanza di suo nipote, ho levato dall’armadio il fucile e le cartelle compromettenti, ho scaricato tutto nelle canne del gabinetto, pensando che mai più sarebbero giunti a mettere le mani là dentro”.

La narrazione del Cavalier Francesco Milani prosegue poi per riferirci che il Sacerdote, il mattino successivo, scese di buon’ora a Lecco davanti all’albergo del Morone (dove oggi sorge il palazzo delle Poste) per prendere la diligenza per Milano, dove giunse con gran ritardo a causa della neve e del gelo.

Raggiunse speditamente la pensione in via dell’Orso, a breve distanza dall’Accademia di Brera, dove abitava il nipote studente per metterlo al corrente dello scampato arresto.

Gli mise in mano un pacchetto contenente 550 svanziche (corrispondenti a circa 450 lire anteguerra 1915-18) e gli intimò di partire immediatamente per Varese, Sesto Calende e quindi di raggiungere il libero Piemonte.

Don Giosuè, non contento ancora, si recò al Comando della Gendarmeria Lombarda dove ottenne udienza dal vice commissario, al quale avanzò una vibrante protesta per l’ingiuria ricevuta nella propria canonica da parte dell’ufficiale, la sera antecedente.

Si lasciarono con l’impegno da parte del vice-comandante della Gendarmeria Lombarda di ordinare all’ufficiale che lo aveva offeso, dandogli del furfante, di tornare in canonica per presentare le sue scuse al Sacerdote, cosa che avvenne qualche giorno dopo.

Ecco come si conclude la narrazione:

Il capitano, non trovando parole adatte, umile e dimesso si sprofondava in inchini al parroco:”Venire…venuto domandare scusa offesa. Voi perdonare…io domandare perdono…”

Il Parroco si ricordò che in ogni contingenza, al di fuori e al di sopra di ogni contrasto, a un animo sacerdotale e cristiano si impone la clemenza e la magnanimità. Prese un bicchiere vuoto, lo riempì di quel vino schietto e generoso che rallegrava la sua mensa e lo porse al capitano: “Siete perdonato! Bevo alla vostra salute”

“E voi essere prete onorevole, perciò brindare alla vostra salute e alla salute del nostro Imperatore”

Il bicchiere di Don Giosuè rimase sospeso in aria, ma ebbe un’idea geniale!

“Conoscete il latino, signor capitano?” chiese il parroco.

“Niet” affermò con schiettezza l’ufficiale.

“Allora brinderò rispondendovi in latino” E noi che di latino ne sappiamo quanto quell’ufficiale austriaco, sentiamo nella nostra lingua il bel brindisi uscito dalle labbra del nostro coraggioso don Giosuè:

“Che il Signore, prima di morire, mi conceda la consolazione e la gioia di vedere la mia patria liberata dalla presenza degli stranieri, dall’ultimo soldato semplice al vostro Imperatore. Amen”

E al capitano che stava per andarsene, facendo un bell’inchino, mormorò fra i denti:”Povero tanghero! Se i tuoi superiori sapessero che hai partecipato al mio brindisi staresti fresco!”

                                                                              EFFE   EMME (Francesco Milani)